È stata da poco portata a termine la seconda impresa della storia che ha visto l’esplorazione del famoso Rub al-Khali – il secondo più grande deserto al mondo – da parte di un team che ha voluto ripercorrere la via della prima leggendaria spedizione, risalente al 1930, quando Bertram Thomas, leggendario esploratore, e lo Sceicco Saleh bin Kalut, si lanciarono in un’avventura portata a buon fine con poche risorse e mezzi. Progetto sostenuto grazie al patrocinio di S.E. Sayyid Haitham bin Tariq Al Said dell’Oman, di Carlo, Principe del Galles, e da S.E. lo Sceicco Joaan bin Hamad bin Kahlifa Al-Thani del Qatar. La spedizione è stata lanciata in onore dei 45 anni di regno di Sua Maestà Qaboos bin Said, partecipando ai festeggiamenti lo scorso 18 novembre. Rafforzata, inoltre, l’amicizia tra Oman, Inghilterra, Arabia Saudita e Qatar. Il progetto è stato interamente finanziato dal Governo omanita, e supporti sono arrivati anche da aziende private e pubbliche. Il deserto: Rub al Khali in arabo, Quarto Vuoto in italiano ed Emty Quarter in inglese. Il nome si riferisce al fatto che copre un quarto della Penisola Arabica in Arabia Saudita ed in Oman. È uno dei deserti più ostili al mondo, anche perché ancora in parte inesplorato: 650.000 km² di superficie arida e inospitale, snobbato persino dai beduini, che lo toccano appena. Il team della spedizione è formato dal famoso esploratore britannico, Mark Evans, con alle spalle innumerevoli imprese straordinarie e da due omaniti Amour Al Wahaibi, un beduino di Bidiya, e Mohammed Al Zadjali, di Outward Bound Oman. Questi uomini sono partiti da Bait Mirbat Salalah lo scorso 10 dicembre, arrivando e concludendo così il viaggio il 27 gennaio a Doha, dopo 1.300 km di camminata al fianco di dromedari, per mantenere la tradizione della prima spedizione.

Le ricerche mediche e scientifiche: il team si è sottoposto a studi medici e psicologici contemporanei, per verificare come ha risposto in ambienti estremi ed isolati. Nathan Smith, lettore di Psicologia dello Sport all’Università di Northampton, nel Regno Unito, in collaborazione con Gro Sandal, docente di Psicologia all’Università di Bergen in Norvegia, si sta occupando di capire come Mark Evans ed i suoi compagni hanno reagito all’esposizione a condizioni estreme, analizzando i fattori personali dei partecipanti, che hanno provveduto a registrare giornalmente i cambiamenti di umore e come hanno affrontato le situazioni di stress. L’esito dei vari esami porterà a capire la strategia migliore da utilizzare in ambienti estremi e la risposta dell’organisma al rientro da un viaggio così impegnativo. Inoltre Michael Petraglia, docente di Evoluzione Umana e di Preistoria all’Università di Oxford, si sta occupando, con un équipe di archeologi, del progetto Palaeodesert. La spedizione ha contribuito ai loro studi, condividendo con loro le foto e la posizione delle iscrizioni rupestri rinvenute lungo il percorso, precisamente nell’area del Dhofar, poco dopo la partenza da Salalah. L’esito degli studi farà capire meglio chi abitò in tali zone, in quale periodo, lo stile di vita e il sistema di comunicazione. Nel 1930 furono 60 giorni non facili: tempeste di sabbia e tribù incontrate sulla strada non sempre amichevoli, resero l’avventira più difficile di quanto si potesse immaginare. Nel 2015-2016 la squadra ha impiegato solo 49 giorni a concludere questa grande impresa. Equipaggiata di strumenti che al tempo non esistevano ancora, come il GPS, i telefoni satellitari per fare chiamate in caso di emergenza e i social network a seguire passo passo il viaggio. Siamo riusciti ad intervistare Mark Evans, il team leader della spedizione, che ci ha raccontato della sua esperienza nel Rub al Khali.
Quando ha iniziato a preparare la spedizione?
Due anni fa. Per quanto riguarda il cibo e l’equipaggiamento poche settimane prima della partenza, avvenuta lo scorso 10 dicembre.
Ha avuto dei problemi durante i preparativi?
Si, in merito a poche questioni, risolte grazie al notevole supporto di alcune autorità molto importanti: per prima cosa è stato complicato ottenere i permessi per attraversare Oman, Arabia Saudita e Qatar. Oggi ci sono frontiere, un tempo no, ed era possibile muoversi più liberamente. Le porte ci sono state aperte grazie, per l’appunto, a personalità come il Sultano dell’Oman, Sua Maestà Qaboos bin Said. In seconda battuta è stato difficile trovare i dromedari giusti, perché nessuno li aveva utilizzati per un’esperienza del genere prima d’ora; per questi animali fare un viaggio così lungo, 49 giorni, non è stato semplice. Abbiamo poi trovato 4 esemplari che ci sembravano ottimi compagni di viaggio.
Perché sembravano?
Perché purtroppo uno di loro ci ha dato problemi lungo il viaggio e siamo stati costretti ad allontanarlo per non compromettere l’intero viaggio. Ma gli altri 3 sono stati magnifici!

Avete avuto altri problemi lungo il viaggio?
Devo dire che è andato tutto bene. Abbiamo avuto due tempeste di sabbia e poi, verso fine gennaio, i dromedari facevano fatica ad avanzare per via del caldo estremo e della mancanza di vento. Poi le temperature si sono abbassate un po’: altri due giorni e ci saremmo trovati in guai seri. Quando ha avuto l’idea di partire per quest’avventura e come mai ammira cosi tanto l’uomo che ha fatto la prima spedizione, Thomas Bertram? 5 anni fa ho iniziato a pensare a quest’impresa come una cosa possibile da fare. Ammiro molto Thomas, perché nessuno prima di lui ci si era cimentato. Lui c’è riuscito senza una mappa, senza aiuti o sostegni: si è auto-finanziato. La mia spedizione è stata sicuramente più agevole, anche se le condizioni atmosferiche sono sempre le stesse di 85 anni fa, ossia caldo estremo di giorno e molto freddo di notte.

I suoi compagni di avventura: come li ha scelti e come sono stati durante il viaggio? Non avendo la sua esperienza, hanno avuto dei problemi?
Avevamo già lavorato insieme in passato, quindi, per me, è stato facile affidarmi a loro. È fondamentale la scelta dei giusti compagni, perché devi poter sempre contare su di loro e viceversa. Sono stati meravigliosi, essendo omaniti non hanno avuto problemi a reggere le temperature. Ed hanno anche saputo far fronte allo stress in modo egregio. Li giudico ottimi compagni di avventura.
Qual era la vostra dieta tipo durante il viaggio?
Mangiavamo molto leggero per evitare di trasportare troppo peso, comunque per colazione muesli e latte, per pranzo noccioline, datteri e acqua, per cena ci regalavamo 5 diversi menù tra cui pasta, riso e spaghetti. Senza contare che quando arrivavamo in piccoli villaggi erano in molti coloro che venivano a portarci cibo e acqua. Una volta 27 capre e 9 dromedari sono stati uccisi in nostro onore. Non abbiamo mai avuto problemi di cibo, come è stato invece per Thomas.

Prima di partire ha dichiarato in un’intervista: «la spedizione sarà una grossa opportunità per incontrare persone affascinanti». Ora, che ha ultimato quest’esperienza, ci può raccontare qualcosa su chi avete incrociato?
Certamente, sono state molte le persone che abbiamo incontrato e con cui abbiamo avuto la fortuna di condividere quest’incredibile impresa. Una in particolare mi ha davvero colpito in Arabia Saudita, ossia lo Sceicco Mubarak Saleh Muhammed Saleh bin Kalut, il pro-pronipote dello spedizioniere omanita che ha partecipato alla prima spedizione, nel lontano 1930, lo Sceicco Saleh bin Kalut. Si è unito alla spedizione dal momento del nostro incontro in Arabia Saudita, indossando lo stesso Khanjar (pugnale) che il trisnonno indossò 85 anni fa e munito anche dello stesso fucile. Molte persone dai villaggi ci hanno ospitato, rifoccillato, dissetato e affascinato con le loro storie. Grazie a Mohammed Al Zadjali abbiamo sempre avuto traduzioni in tempo reale dall’’arabo all’inglese e viceversa, facilitando così tutte le comunicazioni con i locali.
Le mancheranno le notti sotto il firmamento e la pace del deserto?
Moltissimo. Abbiamo sempre dormito sotto un cielo stellato! Incredibile come possano esistere paesaggi così meravigliosi, la natura è davvero unica e ci ha regalato emozioni indescrivibili per tutta la durata del viaggio. Fortunatamente due fotografi molto in gamba e appassionati del progetto hanno immortalato la spedizione per tutta la sua durata e sono Sim Davis e John C. Smith, che ringrazio davvero tanto.

Ora, tirando le somme. Cosa avete scoperto di nuovo?
Abbiamo constatato che molti animali sono scomparsi, anche perché vittime della caccia sconsiderata. Abbiamo peraltro scoperto, 10 giorni dopo la partenza, delle iscrizioni su roccia nella regione del Dhofar, attualmente in Francia per essere studiate e individuarne l’epoca di provenienza. Non sono in arabo, ma forse hanno un collegamento con le iscrizioni in sudarabico antico rinvenute sempre nella stessa zona, a Sumhuram.
Come mai ha deciso di fermarsi in Oman?
Ho vissuto in Bahrein ed in Arabia Saudita per 10 anni. Da sempre amante della cultura araba, 15 anni fa sono venuto in Oman in vacanza. Sono rimasto affascinato da valori, quali l’accoglienza e il rispetto da parte degli autoctoni. Sono 12 anni che vivo qui oramai ed è casa mia. Per non parlare del suo leader: Sua Maestà Qaboos bin Said, portatore di pace. Non interferisce negli affari degli altri Paesi ed è di una tolleranza estrema, per non parlare di tutto ciò che ha insegnato al suo Paese, rinnovandolo e facendolo diventare il Paese incredibile e sicuro di oggi. Ha in programma altri viaggi? Al momento abbiamo ancora molto lavoro da fare per questa spedizione e non ci rimane molto tempo per programmare altro… ma tra un anno, forse, chissà. Entro l’anno sarà pronto anche un documentario che racconterà il nostro viaggio.
Un ultima domanda, mi piace quel che ha detto prima di partire in un’intervista: «innanzitutto spero di vedere sul volto dei miei compagni di viaggio quell’espressione di soddisfazione che ho avuto la fortuna di provare nelle mie esperienze precedenti». È davvero un bel pensiero. Ma quali sono state le sue sensazioni durante il viaggio e quali ora?
Beh! Soddisfazione. Le emozioni cambiano continuamente. All’inizio ancora non ci credevo, non realizzavo cosa stavo facendo. Poi dopo circa 20.000 chilometri ho iniziato a pormi delle domande, a riflettere. Bisogna sempre essere positivi e non farsi mai prendere dalla negatività. Oggi sono travolto da interviste, conferenze stampa, viaggi e impegni vari: ne sono felice.
Si può concludere con la frase pronunciata da Sayyid Badr bin Hamad Albusaidi, Segretario Generale del Ministero degli Esteri in Oman, in occasione della conferenza stampa dello scorso 1st novembre «il messaggio più forte che arriva da questo progetto è che le qualità umane del lavoro di squadra, della lealtà, della perseveranza, del coraggio e dell’ospitalità e della fratellanza sono senza tempo».
pubblicato da L’Indro
Un piu che piacevole articolo che fa sorgere il desiderio e la curiosità di partire e “attraversare” il deserto! Eppoi ho appreso eventi storici che non conoscevo.
Grazie mille Paola. È un piacere condividere questa splendida avventura e farla vivere direttamente da chi l’ha vissuta in prima persona.
A presto con nuovi articoli!!