Un progetto ambizioso che mira semplicemente a fare musica jazz e a divertire il pubblico che si trova in India al momento e nei prossimi mesi creando dei suoni jazz del tutto nuovi, che nascono dalla combinazione di stili occidentali e indiani e che cambiano tutte le volte che suona un musicista diverso. Il lavoro dei jazzisti e dell’Istituto di Cultura Italiano a Nuova Delhi sta dando vita a concerti e partecipazioni a festival di artisti nuovi, giovani e brillanti. Parliamone con Matteo Fraboni, il batterista e leader del progetto.
Ci parli del progetto ‘Italy meets india’ sostenuto dall’Istituto di Cultura Italiano? ‘Italy meets India’ è un progetto sponsorizzato dall’Istituto italiano di cultura a Nuova Delhi con l’intento di promuovere e stimolare la collaborazione tra musicisti italiani e indiani sul suolo indiano. Sta funzionando molto bene. Siamo un quintetto ed il repertorio che proponiamo cambia di volta in volta e si adatta a seconda del musicista che suona col gruppo. Suoniamo musiche brasiliane, africane, brani miei e composizioni di Marcello Allulli, amico e sassofonista di Roma. Stiamo girando il paese, a seconda degli show o dei festival che riusciamo a fare.
Come è nata l’idea?
In occasione dell’edizione dell’anno scorso di Senigallia Jazz Festival, che organizzo personalmente, il sassofonista Marcello Allulli sapeva che sarei venuto in India. In passato, all’età di 21 anni, studiai musica indiana con lui e Giovanni Ceccarelli, oggi con una brillante carriera in centro America. Abbiamo pensato di lavorare ex novo ad un progetto facendo un tributo all’India e mescolando musica nostra e musica indiana. Noi abbiamo informato L’Istituto italiano che saremmo venuti in tour e loro hanno subito sposato il progetto, dando poi vita a ‘Italy meets India’.
Da chi è composto il gruppo?
Cambia a seconda della location e del progetto che abbiamo al momento, comunque siamo così composti: • Io alla batteria oppure a suonare qualsiasi strumento a percussione mi capiti tra le mani; • Al sassofono il romano Marcello Allulli; • Al sassofono il torinese Gianni Denitto, che si alterna con Marcello Allulli e che lavora in SudAfrica e in tutto l’est del mondo, tra cui la Cina; • Alla chitarra Pranai Gurung, originario del Darjili; • Al contrabbasso e al basso elettrico Abhinav Kokhar, che interscambia a seconda della necessità; • Al trombone Stefan MacEntee, un australiano proveniente da Adelaide
Qual è il messaggio che volete mandare con ‘Italy meets India’?
Il mio scopo è quello di mandare un messaggio attraverso la gestione delle energie, suonare musica e farlo col piglio giusto e credo sia così anche per gli altri musicisti. Il progetto sta riscuotendo molto successo e molte persone assistono ai nostri concerti, raggiungendo risultati che non mi sarei mai aspettato. Inoltre suonare strumenti di bassissima qualità è una palestra per pensare solo alla musica, a differenza degli strumenti costosi che si usano in Italia. Il termine indiano ‘giogar’ si sposa perfettamente per indicare ‘si usa ciò che si ha’, in questo caso si fa della buona musica anche adattandosi agli strumenti che si hanno a disposizione.
Raccontaci del tuo percorso formativo e professionale. So che sei stato molto all’estero.
Sono nato a Senigallia nel 1983. Da 15 a 24 ho discusso la tesi con un disco già prodotto a New York quindi son sempre stato cocciuto. Mi son sempre da fare lo devo ammettere. Laurea in Composizione e arrangiamento jazz presso il Conservatorio Martini di Bologna. Sono andato a Cuba quando avevo solo 19 anni e ho preso lezioni private da José Luis Quintana Fuentes, detto ‘Changito’, un musicista di fama internazionale che ha suonato con molti grandi della musica, tra cui Santana. Anche a New York ho incontrato maestri Gene Jackson, Ari Hoening e Aki Montoya. In Senegal ho conosciuto il grande uomo Griot Mamadou Diouf, purtroppo scomparso in un incidente stradale, un dei migliori uomini che abbia mai conosciuto. Ho suonato in molti club e Festival in Italia e all’estero e ho inciso un album a New York, This is my Music, Matteo Fraboni Quintet. Essendo anche un insegnante di musica, stesso qui in India presso l’università di Nuova Delhi, ho anche pubblicato un libro didattico The jazz snare drum, sove parlo dell’approccio jazzistico della batteria. Adoro viaggiare, conoscere culture diverse, immortalare attimi con la macchina fotografica e andare in barca a vela.
C’è un musicista che ti è capitato di incontrare durante il tuo percorso a cui sei particolarmente affezionato?
Changito è un pezzo di storia, oltre che un maestro molto severo. Ho un ricordo bellissmo di lui: carismatico, un uomo che ha condotto una vita lasciva, fatta di mille contrasti, che a mio parere aiutano nella musica. Il musicista generalmente suona per cosa filtra nella vita di tutti i giorni. Sì credo che Changito sia un musicista incredibile, ma non è il solo. Poi un grande amico George Garzone, l’insegnante di sassofono della Berkely, che ho conosciuto negli Stati Uniti. Si può paragonare a John Coultrey, un altro mostro del jazz. L’ho invitato a New York per registrare qualche traccia nel mio album ‘This is my music’. Un grandissimo musicista, che ha suonato anche con il re del pop Michael Jackson. Devo a lui la mia più grande fonte di ispirazione artistica, un uomo molto umile e semplice. Abbiamo fatto un viaggio insieme da Siena alle Marche ed è venuto da Boston a Manhattan con la neve con la sua macchina. Un uomo d’altri tempi e decisamente sulla stessa mia lunghezza d’onda.
Cosa ti aspetti da questi progetto?
Nel breve periodo mi aspetto la possibilità di incidere un disco di composizioni originali mie ma suonate durante questo progetto. Nel medio e lungo periodo forse altro. La musica è una delle armi bianche più forti del mondo. La musica è davvero l’unica forma d’arte fruibile da parte di tutti senza aver un preciso background per comprenderla, a volte solo è solo energia. E un quadro non riesce a darti lo stesso. Può avere un potenziale per fare la differenza nei rapporti diplomatici tra due nazioni. Quando seguo questi concerti mi rapporto con professionisti che non incontro fino ad un giorno prima. E se tutto funziona alla perfezione, talvolta, si crea un’amicizia che va al di sopra del passaporto.
Durante i vostri concerti date anche la possibilità ad appassionati amatoriali di jazz di esibirsi con voi?
Si è capitato. Per esempio abbiamo conosciuto il violinista indiano Sharat Chandra Srivastava in una situazione informale. Ci siamo divertiti e abbiamo iniziato a collaborare. A Delhi per esempio abbiamo suonato al ‘The piano Club’, in quell’occasione c’erano alcuni svedesi con cui abbiamo una ‘Jam’. Poi abbiamo conosciuto Solanki, un percussionista indiano che suonava sulla riva di un lago minuscolo a Pushkar, l’ho incontrato per caso mentre, zaino in spalla, stavo passeggiando. Abbiamo iniziato a suonare. Oggi la distanza col musicista di successo non c’è più. Purtroppo la differenza con l’Italia è tanta. Lì non ti danno la possibilità di esprimerti. Lo standard è molto elevato ma nulla si muove. Devo realmente portare qualcosa di qualità, mi richiamano.
Come ti è nata la passione per la musica e la batteria?
Suono la batteria da quando avevo tredici anni: un mio amico suonava il basso e gli serviva qualcuno che suonasse la batteria nella sua band. Iniziai così.
La musica faceva parte delle mie giornate, ascoltavo molta radio e via dicendo. A quindici anni decisi di iniziare a fare il musicista professionista, a ventidue insegnavo già in un’associazione musicale, dove ero impegnatissimo anche con l’organizzazione di seminari. Ho sempre speso una fortuna per la mia formazione musicale e non me ne pento un solo minuto. Sono l’unico musicista professionista in famiglia. Ho dovuto scontrarmi con la mentalità imprenditoriale dei miei genitori ma alla fine hanno accettato la mia passione ed il mio lavoro, ora sono contenti nel vedermi felice realizzare quello che ho sempre voluto. Sono l’unico in famiglia che viaggia così tanto.
Quando sei venuto in India per la prima volta e cosa stai imparando da questa esperienza?
È da quando avevo diciassette anni che volevo venire in india. Ne ho sempre subito il fascino. L’anno scorso sono venuto per due mesi e l’Istituto di Cultura mi ha invitato a fare dei concerti. Grazie al progetto ‘Italy meets India’ posso gestire delle band con musicisti diversi ed è meraviglioso. Ricevo un’attenzione e curiosità da parte del pubblico incredibile., anche perché il genere jazz non è molto conosciuto, lo stanno scoprendo. L’India mi piace molto, ho già girato 9 città: Goa, Mumbai, Delhi, Jaipur, Udaipur, Pushkar, Pune, Chennai e Varanasi. In quest’ultima città per esempio abbiamo tenuto un concerto privato in una Guest House: è stato notevole eravamo uno alla batteria, uno al basso, uno al sitar e una ballerina. Tra i contrasti dell’India quello che mi piace molto è che è tutto come appare, senza artifici alcuni. Poi è bello le soprese che ti riserba, come un giorno di un mese fa ero a Delhi e sono rimasto bloccato con la macchina perché si stava celebrando un matrimonio, con circa trecento persone vestite da festa, con erlefanti, carri e fuochi d’artificio: è stato meraviglioso, un’immersione totale nella cultura locale. Da uno a dieci sto imparando 12 perché mi occupo anche di tutto l’aspetto manageriale, che è assolutamente fondamentale per la carriera di un artista. Se non hai abilità in quel campo sono dolori. È difficile vendere me stesso ma è quello che ti permette di continuare a lavorare. Le giornate sono pesanti, spesso molto faticose. Devi pensare a mille cose contemporaneamente.
Come ti trovi in questo Paese? Qualche paragone con l’Italia?
La collaborazione con i musicisti indiani è nata a piccoli passi. Ho conosciuto una cantante ed un bassista interessati al primo lavoro fatto a New York. Mi hanno chiesto di venire in India a fare delle date. Mi piace stare qui, in Italia non riesco a stare perché non soddisfa la mia libertà mentale. In India mi posso permettere di stare senza lavorare un mese e andare in concerto per tre mesi, questo in Italia sarebbe impossibile. Qui è come stare in un cartone animato perenne. Gli indiani sono molto bravi a fare business, qui di c’è uno scontro culturale sui soldi molto pesante.
A Bangalore ho tenuto delle lezioni in una scuola molto grande. L’insegnante di musica usava il mio nome per fare delle lezioni di chitarra.
E con i musicisti che partecipano al progetto vai d’accordo?
Mi trovo molto bene con i musicisti con cui collaboro e rispetto al nostro standard sono una cerchia elitaria e sono esigenti come professionisti. Lo posso dire in quanto gestisco anche la parte della logistica e dell’organizzazione. In India quel che è diverso è che non hanno nelle corde la cultura western occidentale, ma in compenso hanno il ritmo, che è il loro punto forte. La loro tradizione è raffinata più della nostra e quindi ci sono dei veri e propri talenti, che sono molto bravi. Il violinista Sharat Chandra Srivastava per esempio ha un suono e una pulizia di suono notevole però non ha studiato Vivaldi ma musicisti con colori diversi rispetto ai nostri. Ci sono grosse differenze. Spesso diventa improvvisazione ed è sempre una commistione di stili nuovi. Con ognuno si apre un mondo che non è così scontato tirare fuori. Tutta la vita è molto entusiasmante. Il percussionista che ho incontrato a Pushkar, Nathoolai Solanki, ha registrato un disco con i Radiohead e suona uno strumento molto originale e da lezioni ai turisti e la sua particolarità sono i baffi, importanti direi. Siamo diventati amici, abbiamo partecipato al World Music Festival a Udaipur con 8000 persone ad ascoltarci, è stato fantastico!
Credo sia un progetto interessante ma altrettanto simbolico: i due paesi, Italia e India, come ben sai, non stanno attraversando un periodo di intesa idilliaca, soprattutto per la vicenda dei Marò, pertanto ritengo che sia un grosso segnale positivo che la cultura può dare: l’incontro tra due culture può solo generare positività e buoni propositi. Che ne pensi?
La questione dei Marò ha incrinato i rapporti tra le due nazioni. Nel mio piccolo posso dire che il nostro progetto è stato vincente grazie allo spirito di collaborazione da parte di entrambi i Paesi.
Noi siamo tre italiani, abbiamo reti e rapporti diretti incredibili, e una coesione culturale per avere un dialogo. L’India è in una crescita galoppante, l’italia è stupida, sarebbe un peccato privarsi di rapporti collaborativi.
Che sostegno hai dall’istituto di Cultura?
Ci aiutano a trovare degli spettacoli, dei festival e, cosa principale, ci sponsorizzano. Abbiamo fatto cinque collaborazioni con loro negli ultimi mesi. Qui in India l’ Ambasciata italiana crede nelle nuove leve. Hanno organizzato eventi con jezzisti famosi com Enrico Rava, noi ce la siamo guadagnata iniziando a suonare solo la batteria ed il sassofono, per poi gestire un
Quintetto.
A cosa stai lavorando ora? Hai altri progetti imminenti?
Forse andiamo in Ladakh per un festival della musica sacra l’ultima settimana di aprile, ma Marcello Allulli non sarà dei nostri, perché sarà impegnato a lavorare ad un suo disco a Roma. Prenderà io suo posto un violinista indiano, Sharat Chandra Srivastava. Spero che questo progetto duri perché sta dando molti risultati positivi e vorremmo tutti continuare. Dal 5 agosto al 6 settembre probabilmente suonerò in America Latina, fermandoci a Panama, Uruguay e Argentina. A settembre rientrerò in India, abbiamo un concerto da preparare e già delle date fissate, quindi, fortunatamente, ho degli ingaggi e dei concerti da preparare anche per l’estate.
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